Torno dal concerto bolognese di Waters con alcune vivide impressioni. Uno spettacolo maestoso, soprattutto grazie ai visuals che accompagnano da sempre la carriera di Roger. Ma l’aspetto visivo senza un’idea di fondo diventa baraccone kitsch.
Anche la scaletta è a un pelo dall’autocelebrativo greatest hits, e bisogna ammettere che prende pochi rischi, saltando a piè pari trentasette anni di carriera.
Roger è in grande forma fisica, il morale sembra curiosamente molto alto e anche al basso regala una buona performance, in cui si cimenta addirittura con l’intro di pigs.
La band suona, offrendo uno spettacolo energico e preciso, in cui Jonathan Wilson fa le veci vocali di Gilmour e chitarristiche di Snowy White, mentre un inappuntabile Kilminster ricalca fedelmente la chitarra solista floydiana.
Dove sta la forza dello spettacolo watersiano? L’età gli ha portato presenza scenica e la saggezza di trovare un filo conduttore in una scaletta che sulla carta sembrava un minestrone autocelebrativo. Ma lui recupera animals, che suona per due terzi, e fa ruotare lo show sulla contrapposizione tra noi e loro, in un presente in cui cani e maiali esportano democrazia e a noi viene data la possibilità di resistere. Sono la presenza di Roger, i filmati e alcune trovate scenografiche mozzafiato (come l’apparizione della Battersea Station) che delineano il perché. Così riesce a fare convivere musica, arte visiva e politica senza eccedere in retorica e con una setlist di assoluto valore.
Un amico ha ascoltato mezzo concerto da fuori e mi è sembrato perplesso, perché gli arrangiamenti ricalcavano fin troppo gli originali. Ma non aveva visto e vissuto.
Molti presenti hanno elevato i cellulari e oscurato la visuale per minuti, convinti di poter catturare il loro fleeting glimpse.